Le illusioni dei 7 vizi capitali


“A tutti gli illusi, a quelli che parlano al vento. Ai pazzi per amore, ai visionari, a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno. Ai reietti, ai respinti, agli esclusi. Ai folli veri o presunti. Agli uomini di cuore, a coloro che si ostinano a credere nel sentimento puro. A tutti quelli che ancora si commuovono. – Don Chisciotte del regista attore e drammaturgo Corrado d’Elia

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Sebastian si era reso conto da tempo di cosa era diventata la società, o forse era lui che si sceglieva i contatti sbagliati? Gli era più che evidente come a nessuno importasse “veramente” di quello che gli poteva dare piacere o meno, eppure lui continuava a fare di tutto per aiutare il prossimo, e bisogna dare atto che erano molti quelli che gli si rivolgevano, per i più disparati motivi. “Ma forse sono io che sono pessimista, o solo disincantato potrebbe essere, magari più semplicemente realista. A me interessano gli altri, agli altri non interesso io, siamo reali”.  

Assodata questa condizione, preso atto e consapevolezza della situazione, in fondo la cosa non era poi tragica, “se non ti aspetti nulla dagli altri, non ti potranno deludere o peggio ferire” aveva letto una volta in libro pieno di saggezza. Il risultato era stato il formarsi di una spessa corazza di protezione, un’armatura virtuale che lo faceva sentire al sicuro dal procurarsi ulteriori ferite,

Ma ricordava anche come nello stesso libro fosse scritto che gli illusi (“nel mio caso direi gli stupidi”) non cambiano mai, “A tutti gli illusi, a quelli che parlano al vento. Ai pazzi per amore, ai visionari, a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno.”, il tratto da Don Chisciotte poteva essere quasi mantrico. Un’espressione ironica gli deviò il volto mentre infilava uno stretto calle, Venezia, la città più romantica del mondo, e lui vagava di notte da solo, sorrise alla Luna come un gatto innamorato, come era potuto accadere tutto questo?

San Valentino a Venezia, l’idea mi aveva subito accarezzato, una sorpresa per Joan che mai se lo sarebbe aspettata, l’aveva portata in castelli e dimore nobiliari in passato, ma la città dei Dogi ha sempre un suo fascino particolare. Mi misi al lavoro con perseveranza in totale segreto, riuscii a prenotare una camera a fianco di San Marco, una dimora storica del ‘600, il meglio che potessi trovare visto che Palazzo Ducale non era disponibile.

A seguire feci profonde ricerche, volevo che per cena fossimo in un posto unico, scandagliai notizie e pareri, alla fine prenotai un tavolo in antico ristorante dalle mille particolarità. Ricavato dentro uno stabile del ‘500 che aveva ospitato l’ufficio postale della Serenissima, bastava guardare le foto per rimanerne incantati, uno stretto ponte ad arco chiuso tra muri altissimi introduceva in un vicolo senza via d’uscita.

Un luogo che normalmente avresti evitato a tutti i costi, convinto dei pericoli nascosti in quel buio profondo, racchiudeva un ristorante raffinato e romantico, dipinti antichi si intravedevano sui muri, era fatta. Più difficile fu organizzare la trasferta, giustificare un viaggio oltre oceano, ma anche qui il genio che a volte mi conquistava mi portò a importunare tutte le librerie di Venezia fino a trovarne una che mi ospitasse per la presentazione del mio libro nel pomeriggio, era fatta!


La presentazione del librò andò piuttosto bene, il pubblico fu numeroso e attento, divertente anche, una decina di copie vendute e le altre lasciate sullo scaffale, tornai in albergo per ritrovarmi con Joan che intanto si era dedicata allo shopping, ero riuscito a nascondere tutto alla perfezione.

Il mio piano procedeva alla perfezione, un cameriere compiacente aveva approfittato della sua assenza per appendere al centro della camera un abito che le avevo comprato appositamente per la serata. Firmato Marciano, prezioso pizzo rosso fuoco, era perfetto per San Valentino, firmato Marciano era fissato al centro della camera come un’icona di infuocata passione attendendo la sua principessa.

Quando entrai lo aveva già indossato e si stava guardando allo specchio, “Sei stato tu immagino”, mi apostrofò, “non trovi che sia troppo corto?”, aggiunse studiando l’immagine riflessa.

“Non più del solito, molto meno di altre cose che ti ho regalato anzi”, chiosai sorridendo mentre la guardavo infilarsi le scarpe. Uscimmo dall’hotel dirigendoci verso il ristorante, angoli e deviazioni, pertugi e vicoli, calli e sottoporteghi, pochi metri in linea d’aria possono trasformarsi in lunghi tragitti a Venezia, ma alla fine un inquietante ponte in legno ad arco acuto, coperto, si mostrò davanti a noi.

La porticina d’entrata ricordava certi film di gangsters ai tempi del proibizionismo, ma molto più prosaicamente qui un cameriere in livrea ci fece accomodare in una sala rinascimentale, classe profusa in ogni angolo, personale efficiente si muoveva con professionalità per soddisfare ogni richiesta degli ospiti.

Alzai lo sguardo e vidi sette demoni che mi fissavano, per un attimo mi parve che i dipinti mi stessero sorridendo sarcasticamente, detti la colpa all’adrenalina, non mi sfiorò il pensiero che forse loro sapevano già come sarebbe andata la serata.

Sicuramente non lo immaginavo io mentre guardavo il vestito rosso di Joan immaginando di sfilarglielo per poi esplorare ogni suo più intimo angolo, “Ma cosa possiamo fare noi quando gli Dei dispongono diversamente?”.

Il maître si profuse in dotte spiegazioni sul miglior vino da unire ai piatti scelti, alla fine gli chiesi cosa rappresentassero i demoni dipinti in alto, a costeggiare il muro. “I vizi capitali signore, se guarda bene sono i sette demoni che riprendono superbia, avarizia, lussuria, ira e accidia. Si tratta di pitture originali del ‘500, di grande effetto direi.”

Sorrisi ringraziandolo, ma sicuramente dovevo avere offeso i demoni soprastanti in qualche maniera, o forse la colpa è solo mia, non posso escludere che io racchiuda tutto il male e il vizio rappresentato dai sette spiriti malevoli.

“Beh, direi che stasera possiamo certamente indulgere al demone della gola”, ammiccai verso Joan, ammirando i gamberoni reali nel piatto, “possiamo anche festeggiare la presentazione di oggi”, aggiunsi come battuta.

“In quanto a vizi non sei certo secondo a nessuno!”

Avete presente quando qualcosa vi sfugge? Siete convinti che tutto sia perfetto, che il momento sia quello giusto, tutto il vostro essere è proteso verso la bellezza, così tanto da non rendervi conto di essere sul ciglio del precipizio. In questo caso ero convinto che Joan stesse scherzando, ma sarei stato costretto a ricredermi ben presto.

“Esagerata”, ribattei ridendo, “al limite ho qualche piccolo vizio che mi rende più interessante”

“Piccolo?”, il tono ora era serio e direi irato, rimasi di sasso.

“Qual è il problema?”

“Nessuno, figurati, per te nulla è mai un problema”

“Ma scusami, siamo nella città più romantica del mondo, in un ristorante delizioso, cosa ho fatto di sbagliato?”

“Certo, decidi sempre tu no? Me lo ricordo, “io so fare le cose giuste” dicesti”

“Ma stai parlando seriamente? Manco me ne ricordo, è roba di secoli fa ed era un discorso lunghissimo, cosa c’entrano due parole nel contesto?”

“Già, per te è sempre poco, sei peggio di tuo padre”

“Ma se me ne andai proprio per questo?”

“Non c’entra, vuoi sempre comandare e disporre della vita degli altri”

“Ma veramente ho solo organizzato una cena romantica per noi due, dopo tre settimane in ospedale volevo approfittare di San Valentino per regalarci una festa speciale, mi sono impegnato da matti per noi due e stasera”, alzai il tono della voce di pari passo con la rabbia seguente la disillusione.

“Ancora con questa storia dell’ospedale? Un piccolo intervento, ancora a parlarne?”

“Ma è stato un paio di settimane fa veramente, tu tiri fuori schegge di rabbia del secolo scorso, e comunque cosa c’entra?”

“Ti crogioli in questa storia, qualche giorno in ospedale, che sarà mai stato?”

“Ma io non ne ho parlato veramente, cosa vuoi che mi interessi?”

“Ma se parli solo di te? Non fai altro che parlare di te!”

“Non capisco a cosa ti riferisci, io stavo parlando di noi e di stasera e di questa gita a cui ho lavorato tanto”

“E chi te l’ha chiesto?”


In ogni discussione ci possono essere due motivi per chiuderla, uccidersi a vicenda, non necessariamente nel pieno senso della parola, o uno dei due contendenti deve abbandonare il campo. In quel caso mi alzai con rabbia, per la prima volta che mi ricordi, passai di corsa dalla cassa a saldare e corsi fuori seguito dalle parole di Joan che cercava di richiamarmi. Non mi avvidi dei sette demoni che ridevano sguaiatamente alle mie spalle, spiriti malefici padroni della parte oscura dell’anima, più forti persino del groppo che mi stringeva la gola.

I gradini dei ponti di Venezia possono essere particolarmente scivolosi la notte, me ne accorsi ben presto a mie spese, le lacrime di rabbia non aiutavano sicuramente a fare attenzione, la rabbia poi acceca ancor più. Sentii i piedi levarsi in volo, seguiti da tutto il corpo, librarsi può essere anche piacevole, ma è l’atterraggio il problema, il buio che ne seguì mi spinse in un’oscurità totale rotta solo da parole che parevano arrivare da un’altra galassia.


“Signore, signore, come sta?”

Riaprii gli occhi combattendo con delle fitte lancinanti ovunque, “Cosa succede?”, mormorai.

“L’ho vista volare via mentre scendeva i gradini”

“Devo essere caduto”, gemetti debolmente.

“Ero dietro di lei ero anche io al ristorante, forse ha mangiato troppo, ho visto che aveva ordinato tantissima roba”

“Ah sì, tutto molto buono”

Guardai meglio la mia soccorritrice, grandi occhi scuri, capelli alle spalle, un castigato tailleur grigio in realtà la faceva più sexy di quello che probabilmente pensava. Provai ad alzarmi, ma fitte di dolore mi bloccavano. “Non si muova aspetti”, si girò verso un gruppetto di persone che stavano arrivando, “sono gli amici con cui stavo cenando, aspetti che l’aiutiamo adesso”

“Cosa fai?”, chiese la prima persona che arrivò, bionda, capelli raccolti in un severo chignon dietro la nuca, occhi glaciali mi fissavano, un vestito verde smeraldo la inguainava come una seconda pelle. Si rivolse alla sua amica che mi stava soccorrendo, “lascialo stare, che si arrangi, ci stanno aspettando in discoteca”

“Potrebbe essere meno superba signorina, la sua amica mi sta aiutando”, risposi piccato.

“Mi pare un uomo adulto, non ha certo bisogno di noi”, rispose con alterigia, “non niente di meglio da fare che stare lì disteso?”

“A dire il vero non ho voglia di fare nulla, solo di stare disteso qui ad aspettare”

“Noi non staremo certo ad aspettare i suoi comodi signore, ci aspetta una lunga notte di divertimento”, aggiunse la bionda con superbia.

“A lei la superbia, a me l’accidia, che vuole le dica”, in realtà ero anche invidioso della loro felicità, così contrapposta alla mia infelicità.

“Quindi sarei superba? Va bene così, ci stia bene”, replicò con tono beffardo, poi prese per mano la mia improvvisata infermiera che si alzò e la seguì lasciandomi a terra.


Pensai di aspettare ancora un attimo per riprendermi, e poi cercare di raggiungere l’hotel, ma ogni movimento mi procurava forti dolori. Dal gruppetto formato dalle sette persone che si stava allontanando l’ultima sentì i miei gemiti di dolore misti a rabbia e se ne staccò venendomi appresso, la luce di un lampione sopra di noi la illuminò mostrandomela, era una delle donne più sensuali che avessi mai visto.

La sua carnagione era scura, frutto di lunghe ore passate al sole, le labbra carnose dipinte di un rossetto rosso carminio, i cappelli corvini scendevano fluidi e lunghi, indossava una gonna nera cortissima che mostrava due gambe perfette, sopra aveva un ridotto top a balconcino che metteva in mostra due seni sodi e dalla forma perfetta. Si abbassò sopra di me inondandomi del suo profumo, i miei sensi dimenticarono tutto il dolore perdendosi a guardarla, annusavo la sua sensualità come un lagotto fiuta il tartufo.

“Mi faccia sentire, sono un’infermiera”, le sue mani si mossero agili e leggere su di me, “non ha nulla di rotto se questo la può consolare, solo lividi e ammaccature, fra un paio di giorni sarà come nuovo”, si fermò e mi sorrise mentre la sua mano indugiava sulle mie parti intime, “sento che la caduta non le ha provocato danni irreparabili”, mormorò mentre le sue labbra scendevano a sfiorare le mie.

Sentii la sua mano slacciarmi i pantaloni mentre mi saliva sopra, mi slacciò la camicia mentre si apriva il top e mentre godevo del sentore dei suoi capezzoli turgidi sul mio petto mi fece scivolare dentro di lei. Che il cielo mi aiuti, avevo dimenticato ogni cosa, ero perso sul suo corpo, sul suo muoversi sopra di me, poi, come tutte le cose belle, finì, “Ora devo raggiungere gli altri, cerca di stare più attento quando cammini…”, si alzò e dandomi la schiena iniziò ad allontanarsi.

La guardai sconvolto dal repentino abbandono, “Dimmi almeno come ti chiami?”

Lei girò la testa verso di me, “Lussuria”, e con un movimento di capelli simile a una ruota svanì nella nebbia della laguna.

“Sebastian, Sebastian, apri gli occhi, parlami”

“Chi sei?”, mormorai, tutto era avvolto da un buio profondo.

“Sono io, Joan, dai, ti prego”

“Joan, chi sei?”

“Smettila idiota e parlami”

Riuscii a mettere a fuoco l’immagine, ero disteso e lei mi teneva su la testa, al posto delle labbra infuocate di Lussuria c’era il rosso del suo vestito firmato Marciano.

“Sto bene”, riuscii a mettere assieme, “ho solo mal di testa”

“Sei un idiota, mi hai fatto venire un colpo”

“Sono caduto, scivolato su un gradino bagnato, mi hanno aiutato quel gruppo di sette che erano al ristorante con noi”

“Sette? Forse la botta in testa ti ha fatto male, è San Valentino, al ristorante c’erano solo tavoli da due, i sette te li sei sognati”

“Mi sa che hai ragione, andiamo in albergo dai, che è meglio, ho bisogno di una doccia”


Riuscii zoppicando a raggiungere l’albergo, mentre Joan si struccava mi recai in bagno per fare la doccia, mi tolsi la camicia di fronte allo specchio per vedere quanti lividi avevo, qualche segno c’era, ma soprattutto si vedevano i segni inconfondibili del rossetto cremisi che le labbra insaziabili di Lussuria avevano lasciato sul mio petto.

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